00 26/07/2008 01:19
Risposta per Giano
A proposito di parole, “Giano”, sai che cosa significa il tuo nome?
Dalle tue affermazioni sembrerebbe proprio di no, visto che escludi la possibilità di sapere.
“Giocarsi” un “Socrate” imparato a scuola e culturalmente travasato da insegnanti profani, che non sanno nulla di quello che insegnano, non è certo un buon punto di partenza. Le locuzioni proverbiali, la grande maggioranza delle quali è di matrice gnostica, non possono essere lette in modo convenzionale, come abitualmente si fa; perché, come tutti gli scritti di tal fatta, sono formulati per essere intesi su diversi piani di significato: i quali riflettono il grado mentale di colui che legge e la sua formazione dottrinale. Il senso di questi scritti - che può essere inteso “alla lettera” da chiunque, senza alcuno sforzo mentale - è quello che permette di individuare e discriminare gli ignoranti, verso i quali per l’appunto tende l’inganno, volutamente implicito nel senso letterale, da Dante definito “bella menzogna”, sotto cui si nasconde la “Veritade” dei sensi connessi, che vanno “più oltre che la lettera delle parole fittizie” [cfr. “Convivio”, II, I].

Anche il concetto socratico, riportato da Platone, non è farina del sacco di Socrate, ma della Tradizione che lo ha preceduto (nei confronti della quale la classicità greca rappresenta già un momento di recessione, e l’epicureismo ne costituisce il punto più basso). In una formulazione molto semplicistica, questa recessione è rappresentata dall’utilizzo, nella speculazione filosofica, del semplice razionalismo, nella totale trascuratezza della “trascendenza” razionale, concetto che doveva poi essere ripristinato dall’insegnamento esoterico di Gesù, con la formulazione gnostica del portato della Tradizione, di cui si è impossessata la seconda classicità romana, quella imperiale, per intenderci. (Non cercare agganci di questo tipo nella tua cultura scolastica, perché non li troveresti. Le barzellette che ti hanno raccontato a scuola imponendoti d’impararle sono come le verità secolari).
“Saggio è colui che sa di non sapere” non può certo significare che “saggio è colui che sa di essere ignorante”, che, semplificato vale “saggio è l’essere ignorante”, poiché questo rappresenta una contraddizione in termini; per cui il senso “letterale” della frase, ancorché apparentemente immediato, non significa nulla.

“Saggio”, da “sapio” (aver sapore), poi “sapius”, è colui che ha più di quel “sale”, che è il catalizzatore ermetico dell’esistenza. Tutto sta, come sempre, nel significato delle parole. Per capire il concetto sarà necessario ricordare quanto detto in una precedente risposta a Kaos, a proposito di “scire” (sapere) e “noscere” (conoscere), dove dicemmo che si può “sapere” una cosa senza “conoscerla” affatto, distinzione che si è perduta nel tempo della decadenza e che oggi, come appare dai vostri scritti, è assolutamente confusa. Diversamente il “saggio” è colui che sa che lo “scire” non basta, ovvero lo “scire” equivale al “non scire”, in quanto non consente di “noscere”. Questo è il senso primario della locuzione addotta, anche se, nel caso specifico di Socrate, e, per estensione, in senso morale, è evidente che il “Saggio”, per quanto sia saggio, difficilmente saprà tutto ciò che c’è da sapere; per cui, quanto più impara, più sa che c’è dell’altro da imparare. Ma questo non concerne la Verità sublime e i Princìpi dell’esistenza, che devono assolutamente essere conosciuti e che il Saggio pone in prima istanza, altrimenti non potrebbe definirsi tale. Questi Princìpi , ai quali voi sostenete l’impossibilità di accedere, sono in effetti le sole cose che “devono” essere conosciute: se poi si ignorano le imprese di Napoleone, o non si sanno fare le equazioni di terzo grado, o non si sa quanti siano gli Stati Uniti d’America, questo non ha alcuna importanza, perché è del tutto inutile alla vera felicità dell’uomo.

“Noscere” è una facoltà propria della “gnosi”, che Socrate, nonostante la sua elevata razionalità, non possedeva, ed è lui stesso a riconoscerselo; infatti, dopo avere ipotizzato ai suoi amici che: “Quelli che si siano palesemente distinti per essere vissuti in maniera santa, vengono liberati da questi luoghi terreni e allontanati da essi come da un carcere, e altro giungendo nella pura dimora, vivono al di sopra della terra. E tra di essi quelli che si sono sufficientemente purificati nella filosofia vivono senza corpo per il resto del tempo e giungono a dimore ancora più belle di queste, che non è facile descrivere, né, al presente, vi è tempo sufficiente per farlo. Pertanto, … proprio per tutte le ragioni che abbiamo esposto, bisogna fare di tutto nella vita per avere parte della virtù e dell’intelligenza: perché bello è il premio e grande la speranza”, afferma che: “ Certamente insistere che le cose stiano così come io le ho esposte non si addice ad uomo che abbia senno [cioè “al saggio”; Platone usa il vocabolo “νούν”, che alla lettera significa “mente”]: ma che siano così o un pressappoco le cose che riguardano le nostre anime e le loro dimore, se l’anima, nella sua essenza è immortale, questo mi pare che si addica, e per chi crede che effettivamente stiano così è cosa degna rischiare di credervi, perché bello è il rischio. E tali cose devono riuscire a noi come d’incanto perciò, io, da tempo, indugio su questa favola” [Platone, “Fedone”, 114c-114e].

Socrate (Platone), nella sua recessione speculativa [per cui Dante li collocherà appunto nel gradino più basso dei salvandi], parla ancora di speranza, di rischio, di credenza, di favola… mentre Gesù, nella sua riproposizione gnostica, parla esclusivamente di certezza (infatti, come dice Dea, un poco di più di Socrate ne sapeva!); perché la speranza non è una meta, ma solo l’ipotesi di una meta che deve essere trasformata nella certezza di essere raggiunta, grazie alla “Fede-Sapienza” (Pistis-Sophia), strumento primario della trascendenza razionale. Quando si scomodano i nomi di certi personaggi per sostenere, con brevi chiose sentenziose, le proprie estemporanee opinioni, è così che bisognerebbe saperseli “giocare”.

Al di là dell’immagine culturalmente inculcataci del Socrate convenzionale, ingigantito dal fascino della storia e dalla piccolezza dell’attuale capacità dell’intelletto umano a formulare certi ragionamenti, in altri tempi comuni ad una buona parte dell’umanità, Socrate “sapeva di non sapere”; era certo che la sua speculazione razionale non fosse per niente arrivata al termine ultimo, in quanto aveva una profonda intuizione, impossibile per lui da suffragare, che ci fosse qualcosa oltre la semplice razionalità, pure da lui sfruttata fino al limite estremo; qualcosa che sperava di raggiungere con la sua morte, che egli non certo casualmente si rifiutò di evitare, proprio per soddisfare il proprio inappagato desiderio di vera “Conoscenza”.

A proposito, “Giano” è il “Signore del Tempo”, che conosce assai bene il Passato e il Futuro, immanenti l’Infinito Presente, di cui egli rappresenta la “soglia”; per cui “sa tutto”; ma non per questo è un “presuntuoso”. Ma dal momento che Giano è un’allegoria formulata dall’uomo, è evidente che il formulatore ne sapeva altrettanto quanto il Giano da lui proposto. Ed è chiaro che se una tale Conoscenza era a sua disposizione, significa che è a disposizione dell’intera umanità, non fosse altro perché è stata “tràdita”, ossia “tramandata” dalla Tradizione. Che poi la stragrande maggioranza di questa umanità non sappia che farsene, la ignori o la derida, beandosi nella propria insuperabile ignoranza - di cui vantarsi - questa è un’altra storia.

Pippo.60
[Modificato da pippo.60 26/07/2008 01:21]